Racconto in tempi di crisi virale
C’era una volta… ieri… oggi… domani
Ieri, marzo 2020 [in parte già pubblicato in ‘Voce dei soci’ e qui riportato come primo elemento della trilogia]
Coronavirus: tutti uniti dalla distanza; è un aforisma che bene inquadra lo stato d’animo penso assai diffuso tra noi.
In questi giorni, lunghi e inesorabili, che ci costringono a casa ed in casa, abbiamo il tempo, cerchiamo il tempo, ci aiuta il tempo dei ricordi. L’inverno, così caldo come non mai, ha permesso ai primi fiori di anticiparne la bellezza, con i primi colori, bianco rosa vermiglio giallo viola; l’arrivo della primavera aggiunge nuove tonalità, un arcobaleno, una bandiera dalle tante sfumature con l’arrivo dei lilla, dei blu, dei ciclamino, dei celesti… E allora, osservando questa delicata esplosione floreale e multicolore, ripenso a cammini passati… che vorrei condividere, compartecipare – io tu noi voi – in attesa di riprendere altre e forse migliori percorsi…
In questi giorni, in queste settimane di riposo forzato a casa, è stato detto, suggerito, scritto molto. Cosa fare, come fare, perché può essere successo tutto ciò. “Spillover” ce lo insegna; ma la nostra disattenzione, la nostra superficialità, la nostra ignoranza, la nostra supponenza ci ha distratto, per usare un eufemismo…
I rimedi per superare queste settimane, questi mesi che ci costringono e ci costringeranno ad evitare ammucchiate, per usare il termine più brutto, sono stati e sono tanti. I soliti. Giocare e giuocare (nel più o meno ristretto nucleo famigliare, ovviamente, immagino da 2 – sfortunato certo chi si ritrova da solo - a 4 o 5 soggetti, di rado assai di più), leggere e rileggere, ascoltare musica (quella che piace: a ciascuno la sua), un buon programma radiofonico o televisivo, camminare e viaggiare dentro noi stessi e in noi stessi, scrivere per raccontare e partecipare - compartecipare avrebbe proposto con determinazione Aldo Capitini - , ripensare e ricordare [la memoria serve in questo presente e stimola per un futuro più saggio] piccole o meno piccole altre cose...
In questi giorni ciò che forse (forse?) più mi ha colpito di quanto è stato detto e ridetto (da nostri detrattori?) su quello che sta succedendo, su quanto è inaspettatamente esploso (soprattutto o comunque inizialmente nel nostro Paese), è l’accusa verso la nostra abitudine di eccessive intimità anche inopportune, inutili, forzate, ridondanti: baci, abbracci (e “sputi”, verrebbe da pensare, visto che proprio le maledette goccioline sono o sarebbero la causa principe della trasmissione di questo coronavirus). E alcuni giornalisti nonché alcuni esperti già avvertono di non ricadere in tali stereotipate effusioni non appena l’emergenza sarà finita. In effetti i sentimenti dovrebbero essere più di qualità che di quantità, più di sostanza che di forma, più sinceri che artificiosi. Un amico, o che tale comunque io ritengo, sottolinea non a torto la differenza tra socialità e promiscuità confusa e indistinta. Mi potrebbe trovare d’accordo. Così, sin dall’inizio della mia presa di coscienza di tale stato di cose, ho riflettuto, immaginato, mi sono sbizzarrito a valutare scenari personali di “sopravvivenza”, vita altra dalla consuetudinaria routine (e scusate il bisticcio ripetitivo) che non di rado ci attanaglia o ci illude, ma magari è proprio la nostra scelta di essere ed esserci.
In questi giorni (e lo sarà per molti ulteriori a venire) ho giuocato, camminato soprattutto nella memoria, letto, scritto, partecipato con qualche e a qualche amico le mie divagazioni, i miei pensieri, le mie fantasie, i miei ricordi, le mie bizzarrie e contraddizioni, il mio spirito talora “maligno”.
Sono tempi, questi, in cui vi è o vi sarebbe l’occasione di comunicare in maniera più rilassata, più riflettuta (e riflessiva), maggiormente ragionata e meno frettolosa: una telefonata come un tempo per sentirsi insieme, una lettera – oggi la rete informatica ce lo consente in maniera in tempi antichi inaspettata e imprevedibile – bene pensata cui sarebbe auspicabile una risposta, nelle e con le medesime significanze. E non frenetici messaggi o messaggini, consumistiche videate grazie a sofisticate applicazioni sovente scontate e ingannatrici, stressanti comunicazioni non di rado fredde, banali, pesanti e/o ripetitive nel loro insensato automatismo (a meno che…).
In questi giorni, peraltro, sono arrivate le prime rondini, che hanno nidificato sotto casa…
Un augurio? Chissà… E allora ho raccontato questa fiaba ai miei nipotini, una fiaba scovata leggendo qua e là…
Il colore della rondine. Tanto tempo fa, tutte le rondini erano completamente nere. Quel nero che le avvolgeva, sembrava anche nasconderle al mondo ostile attorno a loro. Le loro ali lunghe permettevano altrettanto lunghi, e acrobatici voli nel cielo; il mondo di giù, era per loro lontano. Le rondini erano piccoli punti neri che tagliavano l’aria nel cielo.
Prima di migrare verso luoghi caldi, due rondini promisero a tre rondini più giovani, che non sapevano la strada, che le avrebbero aspettate al loro nido per poi affrontare il viaggio insieme.
Ma le tre rondini più giovani, cominciarono a tardare. I giorni passavano. Le due rondini più grandi attesero.
Molti giorni dopo, le tre rondini più giovani arrivarono al nido con l’intenzione di partire. Ma le due rondini più grandi restarono ferme e in silenzio, quasi volessero dire: «non possiamo più partire; i venti che incontreremo adesso non li possiamo utilizzare per volare. Sono freddi e forti; ormai l’inverno è troppo vicino. Non si parte». Le tre rondini capirono il messaggio e cominciarono ad essere inquiete. Al contrario, le due rondini erano pacate e calme.
Venne l’inverno con la neve. Le tre rondini restavano vicine una all’altra per scaldarsi, ma mancava il cibo. A questo ci pensavano le due rondini che ogni pomeriggio portavano al nido semi e fili d’erbafresca.
Dove riuscivano a trovare questi semi? Si chiedevano le tre rondini.
Quando arrivò la primavera, le due rondini più grandi avevano il petto bianco, come la neve. Allora le tre rondini capirono cosa era successo: ogni giorno con il calore del loro petto erano riuscite a sciogliere la neve, per arrivare alla terra e ai semi.
Così, il gesto d’amore delle rondini che avevano affrontato l’inverno fu premiato con il colore bianco su una parte delle loro ali e sul petto. Bianco che significa speranza; amore puro.
Oggi, maggio 2020
È ancora tempo di letture, di letture e di riflessioni…
E di riflessioni, certo. Sono in tanti a scriverlo, a dirlo, a pensarlo, a percepirne il valore o subirne l’inevitabilità…
La prima è: tristezza e incredulità. Sono giornate di sole, calde, sia pur alternate a nottate fredde. Tutto è in fiore attorno a casa. Gli ulivi non sono ancora stati potati e aspetto il primo sfalcio. Ma lo spazio è ampio, il giardino, i praticelli, il campo. Eppure. Eppure ti sembra di essere in una sorta di prigione - più fiorita che dorata. Un domicilio coatto, un arresto domiciliare. Tutto comprensibile, ne sono concorde. Ma, dopo quasi due mesi, qualcosa comincia a incrinarsi, nell’animo, nella mente. Cominci a sentirti chiuso, fortemente limitato. Ecco, il tempo di riflettere è angosciante perché la sosta così lunga, forzata, obbligata, principia a minarti. Nell’animo, nella mente, nel corpo. E la tristezza è per quanto è successo, per quanto succede, per come sarà un domani, più lontano che vicino. Una tristezza figlia della riflessione (vuoi anche passiva) sulla drammaticità del momento: le morti, le difficoltà, i numerosi problemi che in tanti dovranno affrontare… L’incredulità è in qualche maniera presente, inorrà tempo. Tanto. Peraltro mi domando: come mai la SARS è poi improvvisamente sparita? E ora? L’attesa è, anche, quella di un vaccino. Già, ma non è cosa semplice…
E siccome è ancora misterioso, quasi un fantasma, questo maledetto virus… ho raccontato, sempre a distanza (oggi giorno è possibile), ai cari nipotini, un’altra breve, breve storia, o leggenda (o favola) del e dal luogo ove abito, Pilonico Paterno, in terra d’Arna…
Tra “storie e leggende di banditi e briganti, di spiriti e fantasmi” mi soffermo su “Massa de Arne e il cunicolo segreto del castello di Pilonico”.
Già nel basso medioevo, X secolo dell’era volgare, la Massa d’Arno, Massa de Arne, era piuttosto estesa, con piccoli villaggi e i suoi tre castelli, Civitella d’Arna, Pilonico (allora Pilonico d’Arna) e Castel d’Arna. Probabilmente fu nel tardo medioevo che i castelli divennero tali e così importanti: allorché la Massa era zona di confine tra il ducato longobardo di Spoleto e il corridoio bizantino di Perugia. “Se… sotto Castel d’Arno si sa che ci sono dei cunicoli sotterranei, in parte ormai crollati e non più comunque rintracciabili, ma che anticamente – ai tempi del nostro racconto senz’altro – scendevano fin quasi alla base della collina, in quel di Pianello, per permettere la fuga… anche in caso d’assedio..”, pare e si dice che pure da sotto la torre del Castello di Pilonico vi fosse un cunicolo, relativamente stretto e non altissimo, che, passando sotto il monte Pilonico, raggiungeva i sotterranei del castello di Castel d’Arno.
Tante sono le leggende, gli aneddoti, le storie, le memorie che si tramandano su questi castelli, in particolare, in tale contesto, quelle e quelli sui castelli di Pilonico e di Castel d’Arno. A me preme raccontarne una, di leggenda, o forse più d’una, oppure è la medesima che si intreccia e si tramanda nel corso del tempo, raccolta direttamente ed indirettamente dalla bocca di varie persone del luogo…
Il fantasma di Pilonico. Si racconta che sin dal tardo medioevo il Castello di Pilonico fosse collegato con Castel d’Arno da cunicoli sotterranei ai più segreti. Racconti di amori e di scandali taciuti. Nel periodo rinascimentale i “banditi” da Perugia, l’Alfani in primis, e da altri luoghi, sembra utilizzassero tali passaggi per le loro scorrerie e violenze di varia natura. Ancora nell’800 con i briganti che imperversavano questi territori, sempre tali passaggi segreti erano spesso importanti per agguati, violenze e fughe repentine. Non sappiamo da quando si cominciò a parlare degli spiriti di Pilonico e di un fantomatico fantasma. Forse gli spiriti erano le anime dei defunti, uccisi brutalmente nei corsi dei secoli, delle fanciulle rapite, segregate e violentate, ed il fantasma l’anima di qualche importante e misericordioso personaggio che voleva punire i malvagi e tranquillizzare le famiglie ed i famigli di chi aveva o avesse subito dei torti. Le cose si protrassero sino all’ultimo dopoguerra del secolo passato, quando più recenti “briganti” e malfattori agirono su queste colline. Ormai il cunicolo tra i due castelli era scomparso, ma l’anima degli spiriti e del fantasma aleggiava sopra e dentro le case ormai spopolate, e soprattutto nella pineta comunale, ora abbandonata a sé stessa, luogo di sgradevoli e nefandi incontri. Con la morte negli anni ’80 dell’ultimo “furfante” tutto si placò.
Domani, luglio 2022
Sono passati due anni, forse più…
Dopo l’angoscia e lo sconforto, le paure ed i timori, le preoccupazioni e la speranza – sempre ultima a morire – che la pandemia virale causata dal famigerato “coronavirus” dei primissimi anni Venti del XXI secolo attraversò il pianeta terra e ci ferì nel nostro supponente orgoglio, in questo nuovo e ormai lontano inverno i miei nipoti saranno bambini che chissà se ricorderanno quei mesi, quel biennio così infausto, all’inizio costretti in casa, senza il loro asilo o scuola, senza potere giocare con i loro coetanei, abbracciarsi, sbaciucchiarsi, toccarsi, rincorrersi, spintonarsi l’un l’altro, senza potere andare a trovare… i nonni…
Ecco, dopo tutto ciò, ora che sembra essere stato un brutto, ma proprio brutto, sogno (ma forse non per loro), mi farà piacere raccontare ad essi un breve favola, o forse una fiaba (non certo una fandonia), come si faceva… come si faceva… come si faceva… una volta…
C’era una volta… C’era una volta un signore, no, un re, neppure questo, c’era una volta un signore che credeva di essere un re.
Era un signore strano, nessuno lo aveva mai visto prima. Comparve all’improvviso e continuò a infastidire, a punzecchiare, a disturbare, a intromettersi tra le persone (anche nelle loro sfere private, senza alcuna attenzione alla riservatezza), a creare panico tra tutti gli esseri mortali - intesi come esseri umani.
Una persona insidiosa questo signore; apparentemente senza particolari qualità – vuoi positive vuoi negative, virtù o difetti in altre parole - ma cattiva, forse ignara della malvagità dei suoi comportamenti, eppure petulante, presuntuosa, indifferente alla pietà e alla pietas dei comuni abitanti del pianeta Terra.
Un signore, dicevo, che, più che strano, era ambizioso e arrogante; pensate: si credeva, lo ripeto, un re. E girava sempre, anche quando non c’era nessuno a vederlo, a osservarlo, a rimirarlo, con una buffa corona in testa. Una corona non di alloro, non d’oro o d’altro metallo prezioso, neppur finta (di plastica o altro materiale), ma una corona di spine, che a questo nostro signore (che non era però un vero e proprio Signore, con la esse maiuscola, per intenderci) non dava fastidio, non faceva male, non creava alcun problema; una corona che, ogni qual volta che il finto re girava in mezzo alla gente (e quanto era contento di farlo: egoista e autoreferenziale), sbatteva contro chiunque gli fosse o andasse vicino e lo feriva: a volte era soltanto una innocua bottarella (neppure se ne accorgeva la vittima, vittima più o meno innocente), altre volte un passaggio come un soffio di aria tiepida, a volte invece faceva male, poco o tanto, di fatto quasi a caso, e a volte infine, neanche tanto di rado, era micidiale, ne potevi morire. Incredibile ma vero, come si dice. Già!
E questo “signoraccio” che si credeva un re, sempre con questa sua corona in testa, era talmente perfido e cattivello, per usare un eufemismo, che passava di qua e di là, saltava a destra e a sinistra, vicino o lontano, correva su e giù, tanto che neppure lo riuscivi a vedere. Si mimetizzava, così silenzioso, che solo quando si era da te allontanato, ne percepivi l’avvenuta presenza, Ma come è fatto? Si chiedevano tutti. L’hai veduto? No, ma l’ho sentito passare, anzi è come se si fosse preso parte di me, lo sento dentro ma non riesco a individuarlo. E così via. Era proprio acido questo finto re; facendo finta di esserti amico, ti stringeva la mano, ti abbracciava, ti baciava, così velocemente che neppure te ne accorgevi. E ti poteva lasciare addosso, una volta scappato via, un senso di calore, quasi una vera febbre che spesso ti scombussolava tutto. Ed era talmente veloce nei suoi spostamenti, da sembrare quasi ubiquitario. Talché vi era anche chi si domandava: ma sarà vero? È vero, è vero. C’è, ma non lo vedi. Trasparente? Non proprio, ma come se lo fosse.
Insomma era davvero un “signoraccio”: subdolo, scaltro, si mimetizzava e si adattava a chiunque avesse incontrato. Era un suo trucco per non farsi riconoscere e… zac… gli faceva male, poco o tanto, o comunque ci provava…
Fosse stato soltanto dispettoso, pazienza, ma era decisamente maligno, chi dice che fosse ignaro di ciò, chi dice invece che lo facesse apposta o quasi. Ma tant’è…
Insomma era un signore, o forse un non signore, né tanto meno un re, decisamente velenoso.
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